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L’influenza esercitata dal microbiota nasale sul grado di gravità del raffreddore

I ricercatori hanno accertato che la composizione microbica dei batteri che popolano la cavità nasale influisce notevolmente sul tipo e sulla gravità dei sintomi associati al raffreddore.

Per esempio, una ricerca ha dimostrato che le persone la cui cavità nasale contiene prevalentemente batteri stafilococchi manifestano sintomi più gravi rispetto ad altre persone, come anche emerge chiaramente da nuovi studi, sebbene, i raffreddori siano riconducibili allo stesso identico ceppo di virus.

I ricercatori hanno riscontrato la presenza nei volontari di sei diversi tipi di microbioti, in base ai batteri predominanti in questa specifica area dell’organismo, per cui i partecipanti allo studio sono stati divisi in sei differenti modelli. I diversi modelli sono stati associati a differenti livelli di gravità dei sintomi. Inoltre, è stato riscontrato che le combinazioni in questione si correlano alla carica virale e alla quantità di virus del raffreddore presente nell’organismo.

La scoperta ha stupito anche i ricercatori specializzati più esperti coinvolti nella ricerca. “La prima sorpresa è rappresentata dalla possibilità di identificare queste diverse categorie in cui è possibile inserire le persone e successivamente riscontrare che le rispondenze appaiono essere importanti per definire il modo in cui si reagisce al virus, anche nel grado di severità della patologia”. Come ha affermato il ricercatore Ronald B. Turner, della facoltà di medicina dell’Università della Virginia. “Ha influito sulla carica virale e sulla quantità di virus che è stata eliminata nelle secrezioni nasali. Pertanto, il microbiota di base, il modello batterico nasale di base, ha influenzato sia il modo in cui ogni volontario ha reagito al virus sia ha inciso sulla gravità dell’iter patologico”.

Il ruolo dei microrganismi nella cavità nasale

I microrganismi che popolano le narici non provocano il raffreddore. Tale patologia è ovviamente causata dal virus del raffreddore. I ricercatori non sono ancora in grado di affermare se sono i microrganismi presenti nelle narici ad essere realmente responsabili delle diversità di gravità dei sintomi, o se questo è dovuto al fatto che sussiste una qualche caratteristica di base dell’ospite che lo rende predisposto alla presenza di stafilococchi nel naso e che lo rende anche più suscettibile di ammalarsi. Ciò appare molto probabile, ma sarebbero necessarie ulteriori ricerche per determinarlo.

Riportiamo comunque che questa associazione e correlazione già citata esiste, per cui è molto probabile che una maggiore percentuale di stafilococchi nelle narici provochi un aumento dei sintomi, ma che la causa scatenante sia un’altra.

Ad esempio, i geni del soggetto possono essere responsabili sia della composizione del microbiota nasale sia della reazione manifestata al virus del raffreddore. Oppure la questione può essere molto più complessa di così. “Non so se esistono caratteristiche ambientali che influenzano il soggetto, se è maggiormente esposto all’inquinamento o se è allergico o se altre, diverse, circostanze possono incidere”, ha dichiarato Turner. “Ma sospetto che esista una certa interazione tra l’ospite, l’ambiente e l’agente patogeno che determina in quale microbiota è destinato a collocarsi”.

I ricercatori hanno testato 152 microbioti nasali dei partecipanti allo studio prima e dopo aver veicolato il virus del raffreddore, escludendo la possibilità che il virus o la patologia risultante alterasse in modo significativo la composizione degli stessi.

I probiotici possono abbreviare la durata di un raffreddore?

Turner e i suoi colleghi volevano capire se somministrare alle persone probiotici (batteri benefici) poteva contribuire a migliorare i sintomi del raffreddore o influenzare la composizione dei loro microbioti. La risposta? No.

A tale scopo, i ricercatori hanno somministrato ai partecipanti allo studio un probiotico per via orale. Non solo non ha influenzato i batteri componenti il microbiota nelle cavità nasali, ma non ha nemmeno sortito un effetto significativo sui batteri del microbiota gastrico. “Possiamo rilevare il probiotico nell’intestino con estrema frequenza. Non ovunque e sempre, ma piuttosto spesso”, ha dichiarato Turner. “Non ha realmente influenzato in modo significativo il modello microbiotico intestinale.”

È possibile che la somministrazione di un probiotico direttamente nel naso e attraverso uno spray abbia più effetto. Ma Turner, che da decenni conduce ricerche sul virus del raffreddore, è scettico sul fatto che possa apportare una differenza significativa.

Al termine dello studio ha lanciato una possibile ipotesi di ricerca “Una delle cose che sarebbe interessante chiedersi, e questo sarebbe uno studio completamente diverso, è: cosa succede se si somministrano antibiotici? È possibile modificare la flora batterica presente a livello nasale somministrando antibiotici? Facendo questo si ottengono risultanze positive o negative? Sono tutte incognite.”

I ricercatori hanno pubblicato i loro risultati sulla rivista Scientific Reports.

Nasal microbiota clusters associate with inflammatory response, viral load, and symptom severity in experimental rhinovirus challenge. Scientific Reports, 2018; 8 (1) DOI: 10.1038/s41598-018-29793-w

Avvertenze relative al collutorio a base di Clorexidina

La prima ricerca che ha analizzato l’effetto del collutorio a base di clorexidina sulla globalità del microbioma orale ha rilevato che il suo utilizzo aumenta significativamente il livello di batteri produttori di lattato che riducono in modo considerevole il pH della saliva e possono incrementare il rischio di carie dentaria.

Un team guidato dal dottor Raul Bescos della Facoltà di Scienze della Salute dell’Università di Plymouth ha trattato i candidati del trial con un collutorio placebo per sette giorni, seguito da un trattamento sempre per un periodo di sette giorni con collutorio a base di clorexidina.

Alla fine di ogni periodo, i ricercatori hanno analizzato la concentrazione e la diversità dei batteri presenti nel cavo orale, il microbioma orale e misurato il pH, la capacità tampone della saliva (la capacità di neutralizzare gli acidi nella bocca), e le concentrazioni di lattato, glucosio, nitrato e nitrito.

La ricerca, pubblicata su Scientific Reports, ha rilevato che l’uso di collutorio a base di clorexidina durante il periodo di somministrazione settimanale ha determinato una proliferazione significativa di specie delle famiglie Firmicutes e Proteobacteria e una minore presenza di Bacteroidetes, TM7 e Fusobacteria. Tale differenza di concentrazione è stata associata a un aumento dell’acidità, osservato in un pH salivare decisamente più basso e in una minore capacità tampone.

Nel complesso, la clorexidina ha dimostrato di ridurre la diversità microbica nella bocca, anche se gli autori hanno evidenziato la necessità di ulteriori ricerche per determinare se tale riduzione della diversificazione batterica aumenta il rischio di malattie orali.

Una delle principali funzioni della saliva è quella di mantenere nel cavo orale un pH neutro, poiché i livelli di acidità variano a seconda di cosa si mangia e cosa si beve. Se il pH della saliva si abbassa eccessivamente, possono insorgere delle alterazioni dentali e delle mucose, dei tessuti paradontali nonché la comparsa di problematiche all’interno del cavo orale.

La ricerca ha altresì confermato i risultati di studi precedenti indicanti che la clorexidina altera la capacità dei batteri orali di convertire il nitrato in nitrito, una molecola chiave per ridurre la pressione arteriosa. Sono state riscontrate concentrazioni inferiori di saliva e nitrito nel plasma ematico dopo l’utilizzo di collutorio a base di clorexidina, con conseguente tendenza all’aumento della pressione arteriosa sistolica. I risultati, che hanno supportato precedenti ricerche condotte dall’Università, dimostrano che l’effetto di abbassamento della pressione arteriosa derivante dall’esercizio fisico si riduce significativamente quando le persone si risciacquano la bocca con un collutorio antibatterico piuttosto che con acqua.

Il dottor Bescos ha affermato: “Esiste una sorprendente scarsità in termini di conoscenze e di letteratura sottesa all’uso di questi prodotti. Il collutorio alla clorexidina è ampiamente utilizzato, ma la ricerca è stata circoscritta all’effetto che esercita su un ristretto numero di batteri legati a particolari patologie del cavo orale, inoltre la stragrande maggioranza di tali ricerche è stata condotta in vitro.

Riteniamo che questa sia la prima ricerca che esamina l’impatto provocato dall’impiego settimanale sull’intero microbioma orale umano”.

Le Dottoresse Zoe Brookes e Louise Belfield Professoresse della Facoltà di Odontoiatria Peninsula Dental School dell’università di Plymouth sono coautrici della ricerca.

La Dottoressa Belfield ha dichiarato: “In passato abbiamo decisamente sottostimato la complessità del microbioma orale e l’importanza che riveste. Storicamente, l’opinione diffusa è che i batteri sono nocivi e causano patologie. Tuttavia, ora siamo consapevoli che la maggior parte dei batteri: sia presenti nel cavo orale che nel tratto intestinale risultano indispensabili per preservare lo stato di salute dell’organismo”.

La Dottoressa Brookes ha inoltre aggiunto: “Come medici odontoiatri, necessitiamo di ulteriori informazioni su come i collutori alterano l’equilibrio dei batteri nel cavo orale, in modo tale da poterli prescrivere appropriatamente. Questo contributo è un primo passo importante per raggiungere tale obiettivo.

In considerazione della recente epidemia di COVID-19, molti odontoiatri utilizzano attualmente la clorexidina come trattamento preliminare prima di eseguire le procedure odontoiatriche. Servono urgentemente maggiori informazioni relative all’effettiva azione anti-virus”.

  • Università di Plymouth (24 marzo 2020). Il collutorio comunemente utilizzato potrebbe rendere la saliva significativamente più acida, modificare la carica microbica. ScienceDaily. Retrieved June 27, 2020)

 

Gen 23, 2020

Il ricorso agli antiossidanti nei pazienti oncologici è efficace?

antiossidanti nei pazienti oncologici

Il ricorso agli antiossidanti nei pazienti oncologici è oggetto di numerose controversie. I medici specialisti non concordano tra loro sull’utilizzo di tali molecole. In questa disamina cercheremo di essere i più oggettivi possibili, poiché si tratta di un argomento che non può essere preso alla leggera. I dati che riportiamo sono i risultati di recenti studi sull’utilizzo di antiossidanti in relazione alla terapia oncologica.

 Che cosa sono gli antiossidanti e qual è il loro contributo

Gli antiossidanti sono composti chimici che neutralizzano i radicali liberi. Gli antiossidanti possono essere endogeni, in altre parole prodotti dall’organismo stesso. Oppure, possono essere esogeni, ovvero ottenuti dal tipo di cibo consumato regolarmente o provenienti dall’assunzione d’integratori alimentari.

Occorre precisare che i radicali liberi sono sostanze che possono danneggiare sensibilmente la nostra salute. Ecco perché bloccarli e neutralizzarli è considerato così importante per la prevenzione di alcune malattie come le patologie oncologiche. Questa ipotesi si basa sul principio dello stress ossidativo relativo allo sviluppo delle patologie tumorali. Un argomento che continua a generare alcune opinioni contrastanti tra i medici specialisti.

vitamina C e betacaroteni

Gli antiossidanti possono arrestare il cancro?

In conformità a dati strettamente scientifici, l’utilizzo di antiossidanti può addirittura aumentare il rischio di contrarre una patologia tumorale. Una ricerca in tal senso effettuata su cavie ha evidenziato che gli antiossidanti hanno accelerato la progressione dei tumori polmonari primari. Tuttavia, tale ricerca, non ha fornito indicazioni significative sull’utilizzo di antiossidanti e sulla progressione di altri tipi di tumori.

Altri studi osservazionali analitici e anche studi caso-controllo per stabilire se l’utilizzo di integratori alimentari antiossidanti riduce il rischio di insorgenza di tumori nelle persone non hanno chiarito significativamente la questione. I risultati ottenuti sono contrastanti e privi dei bias che possono influenzare i dati raccolti in questi studi.

In sintesi, è importante considerare con assoluta cautela le informazioni ottenute da qualsiasi studio a mascheramento singolo o su animali. A tale proposito, gli specialisti si affidano maggiormente a studi controllati randomizzati i cui bias limitanti sono molto inferiori rispetto a quelli citati in precedenza. Finora, sono stati condotti pochi studi specifici di questo genere i cui risultati hanno rilevato un aumento dell’incidenza dei tumori polmonari o nessun beneficio/danno associato al consumo di antiossidanti nei pazienti affetti da patologie tumorali. L’unica evidenza ottenuta a favore degli antiossidanti è stata l’utilizzo di vitamina C e betacaroteni che si sono rivelati in grado di ridurre l’incidenza dei tumori cutanei femminili.

Mag 20, 2019

I resti archeologici organici analizzati dimostrano l’assenza di malattie tumorali nelle civiltà antiche

l'assenza di malattie tumorali nelle civiltà antiche

Molti ricercatori e archeologi hanno rinvenuto le stesse evidenze. Il 99% dei reperti fossili e le analisi effettuate su soggetti sottoposti a mummificazione non mostrano nei tessuti tracce di malattie tumorali. Questo dato implica una domanda: Perché non vi è traccia di malattie tumorali nelle civiltà antiche? Tutto pare indicare che la rivoluzione industriale ha contrassegnato un vero e proprio spartiacque nella genesi di questa malattia mortale.

 Le origini del cancro come malattia moderna

Il medico, professore e paleopatologo Michael Zimmerman e la sua collega Rosalie David sono i ricercatori incaricati di certificare le evidenze delle malattie tumorali nelle società preindustriali. Gli studi effettuati hanno dimostrato che il cancro è una malattia recente, con solo l’1% d’incidenza su tutti i reperti fossili e le mummie analizzate con la più avanzata tecnologia digitale.

Le conclusioni indicano un aumento significativo delle malattie tumorali dalla prima rivoluzione industriale. Queste sono le premesse a sostegno della teoria elaborata dai due ricercatori:

  • Inquinamento, radiazioni, sostanze chimiche e metalli pesanti sono elementi letali che non esistevano nelle civiltà antiche.
  • Il consumo di alimenti trasformati è una delle abitudini introdotte dalla modernizzazione industriale. Prima della Rivoluzione Industriale, non esisteva alcun alimento diverso da quello che la natura metteva a disposizione degli esseri umani.
  • Anche la mancanza di esercizio fisico è una conseguenza di una società modernizzata. La presenza di veicoli a motore ha ridotto considerevolmente la vita attiva della popolazione.
  • Inoltre, i campi elettromagnetici come pure le emissioni radianti sono responsabili dell’aumento delle probabilità d’insorgenza delle malattie tumorali. L’esposizione prolungata a segnali wi-fi, microonde, telefoni cellulari, computer portatili, ecc. è responsabile di alterazioni della funzione ormonale dell’organismo, nonché di processi infiammatori, alterazioni cellulari, coaguli ematici, danni al DNA, ecc.

l'assenza di malattie tumorali nelle civiltà antiche

  •  Infine, la modernizzazione delle industrie ci ha condotto a una sorta di allontanamento dall’ambiente naturale. Le civiltà antiche invece erano intimamente legate al proprio ambiente naturale; camminare a piedi nudi o non indossare vestiti comportano importanti benefici per la salute. È consigliabile, infatti, aumentare il livello di contatto con l’ambiente naturale per mitigare i danni da emissioni radianti e campi elettromagnetici. Per contro, le civiltà antiche trascorrevano più ore esposte alla luce solare, ciò garantiva una corretta disponibilità di vitamina D3. Bassi livelli di tale vitamina sono stati associati a una maggiore incidenza di malattie tumorali nella nostra società.

    La concezione della moderna medicina punta a un ritorno al modello di vita dei nostri antenati per conciliare la presenza delle nuove tecnologie con la salute.

 

Ago 1, 2018

Quattro tessuti organici che possono essere rigenerati mediante la nutrizione

tessuti organici

Rigenerazione del sistema nervoso:

Possiamo reperire un’ampia gamma di composti naturali con effetti rigeneranti sul sistema nervoso.

Una ricerca del 2010 pubblicata sulla rivista Rejuvenation Research ha evidenziato che la combinazione di mirtillo rosso, tè verde e carnosina ha effetti neurogenici (cioè promuove la rigenerazione neuronale), inoltre ha effetti rigenerativi delle cellule staminali in caso di malattie neuro-degenerative. Altre sostanze neurogeniche studiate con esiti positivi sono:

Curcumina

Apigenina (flavone presente in verdure come il sedano)

Mirtillo rosso

Ginseng

Ginkgo Biloba

Salvia rossa

Resveratrolo

Pappa Reale

L- Teanina (aminoacido presente solo nel tè verde)

Ashwagandha

Caffè (per la presenza dell’alcaloide trigonellina)

Ci sono altri tipi di sostanze che risanano il sistema nervoso, i cosiddetti composti rimielinizzanti, che stimolano la riparazione del rivestimento protettivo intorno all’assone dei neuroni noto come mielina i quali sono spesso danneggiati in lesioni neurologiche e/o disfunzioni, soprattutto a causa di malattie auto-immuni e vaccini. Alcune delle sostanze studiate che hanno dato risultati positivi sono state:

Berberina

Acidi grassi polinsaturi EPA

Melatonina

L-Arginina

Inoltre le ricerche hanno dimostrato come la musica, l’innamorarsi o attività come il tai chi possano stimolare la neurogenesi, la rigenerazione e/o la riparazione dei neuroni, indicando che la medicina rigenerativa non richiede necessariamente l’ingestione di sostanze, ma può anche essere utilizzata un’ampia gamma di azioni terapeutiche per migliorare la salute e il benessere.

Rigenerazione delle cellule miocardiche:

In passato si credeva che il tessuto cardiaco non fosse in grado di rigenerarsi. Una nuova branca di ricerca sperimentale ma in rapida espansione indica che questo non corrisponde al vero e che esiste una classe di composti rigeneranti del tessuto miocardico noti come sostanze neocardiogeniche. Le sostanze neocardiogeniche sono in grado di stimolare la formazione di cellule progenitrici cardiache in grado di differenziarsi in tessuto cardiaco sano e comprendono le seguenti:

Resveratrolo

Ginseng siberiano (Eleuterococco)

Estratto di vino rosso

Geum Japonicum

N-acetilcisteina

Rigenerazione epatica

Rigenerazione epatica:

Le ricerche effettuate hanno dimostrato che la glicirrizina, un composto che si trova nella liquirizia, stimola la rigenerazione della massa e della funzione del fegato. 

Altre sostanze studiate come rigeneranti del fegato includono:

Carvacrolo (composto volatile dell’origano)

Curcumina

Rooibos

Vitamina E

 

Rigenerazione ormonale:

Esistono composti noti come secretagoghi, tali composti aumentano la capacità delle ghiandole endocrine di secernere più ormoni, inoltre vi è la presenza di sostanze che rigenerano effettivamente gli ormoni che sono stati degradati.

Una di queste sostanze è la vitamina C, che, grazie al suo potere elettron-donatore, è in grado di fornire gli elettroni mancanti per rigenerare la funzione ormonale. Secondo alcune ricerche, è in grado di rigenerare la forma e la funzione dell’estradiolo (estrogeno, E2), del progesterone e del testosterone. La vitamina C può costituire un eccellente integratore nella terapia ormonale sostitutiva.

Mag 2, 2018

6 benefici comprovati della propoli

propoli

Le api producono una sostanza chiamata propoli raccogliendo le secrezioni resinose dagli alberi di pino e da altri sempreverdi. Miscelano tale resina con particelle di cera e polline e la trasportano all’alveare. Questa miscela è utilizzata dalle api come materiale costruttivo, isolante e rivestimento protettivo di tutte le superfici interne dell’alveare (riparare le celle, sigillare le eventuali fessure, ridurre il foro di volo alla giusta misura in previsione dell’inverno, sigillare l’arnia, ecc..).

Non solo, la propoli funge anche da barriera antisettica, proteggendo l’alveare da contaminazioni e da invasori esterni come topi, serpenti e lucertole. L’etimologia della parola “propoli” deriva dal greco “propolis”, in altre parole “davanti alla città” che, in senso figurato, assume il significato di “difesa della città”.

Le proprietà antimicrobiche della propoli proteggono l’alveare da virus e batteri. I ricercatori hanno scoperto analizzando le api che vivono in alveari nei quali vi è la presenza di questa sostanza, una percentuale di batteriosi nel loro organismo molto bassa e un sistema immunitario molto più forte e resistente.

Non solo le api beneficiano della propoli. Per migliaia di anni l’uomo, e nella fattispecie medici, guaritori o chi praticava la medicina popolare, a qualsiasi latitudine, (le proprietà di questa sostanza erano note a Greci, Romani, Arabi e Incas) hanno utilizzato la propoli per curare ascessi, guarire ferite e combattere le infezioni. A tal proposito è bene ricordare che la propoli era elencata come farmaco ufficiale già nelle farmacopee londinesi del XVII secolo.

Studi recenti confermano un lungo elenco di benefici per la salute che offre la propoli. È altresì importante ricordare che attualmente, sono stati eseguiti oltre 2000 studi e ricerche riguardanti quest’argomento. Di seguito sono elencati solamente alcuni dei suoi effetti benefici per la salute.

Azione antimicrobica

La Propoli presenta molteplici proprietà antibatteriche, antimicotiche e antivirali. Nei bambini, si è scoperto che:

  • Previene le infezioni delle vie respiratorie
  • Rafforza le vie aeree superiori, evitando i sintomi causati dal comune raffreddore
  • Previene le infezioni dell’orecchio medio

 

propoli

Cura le ustioni

La propoli può favorire la guarigione delle ustioni minori. I ricercatori hanno comparato una crema per la pelle a base di propoli a un farmaco utilizzato per trattare le ustioni, la sulfadiazina argentica. I risultati della ricerca hanno dimostrato che la propoli è efficace quanto il farmaco nel trattamento delle ustioni di secondo grado.

 Previene la carie.

I medici greci e romani utilizzavano la propoli come disinfettante orale. Studi recenti dimostrano che può essere efficace nel trattamento di parodontiti e gengiviti.

Numerosi studi hanno inoltre dimostrato che gli estratti di propoli limitano il formarsi della placca e riducono il rischio di carie dentaria.

Altri studi dimostrano che può anche aiutare a rigenerare la polpa dentale, così come il tessuto osseo e cartilagineo.

 

Tratta i parassiti

Test preliminari dimostrano che la propoli può eliminare i parassiti. In una ricerca, i soggetti che hanno assunto propoli hanno avuto un indice di successo compreso tra il 52% e il 60% nell’eliminazione della giardia (protozoo parassita che causa la giardiasi).


Rimuove le verruche

In un esperimento cieco semplice, randomizzato, di 3 mesi, 135 pazienti, con diversi tipi di verruche, hanno assunto propoli per via orale, echinacea o placebo. I pazienti con verruche comuni hanno raggiunto rispettivamente un indice di guarigione del 75% e del 73%. I risultati sono stati, dunque, significativamente migliori rispetto a quelli associati all’echinacea o al placebo.

Utile nella lotta contro il cancro del/della:

  • Cervello
  • Pancreas
  • Testa e collo
  • Rene e della vescica
  • Pelle
  • Prostata
  • Torace
  • Colon
  • Fegato
  • Sangue

 

La Propoli è una sostanza sorprendentemente complessa che contiene fino a 300 principi attivi. Si è scoperto che questi principi sono utili nella cura del cancro in vari modi, tra cui:

  • Prevenire la crescita di nuovi vasi sanguigni che alimentano le cellule tumorali
  • Prevenire la diffusione o la metastasi del cancro da un organo all’altro
  • Interrompere la divisione delle cellule tumorali
  • Indurre l’apoptosi o morte cellulare programmata

Inoltre, è stato riscontrato che la propoli riduce gli effetti collaterali o la tossicità dei farmaci chemioterapici utilizzati nel trattamento del cancro.

Mar 5, 2018

Relazione tra lo zucchero e l’infiammazione (flogosi)

Relazione tra lo zucchero e l’infiammazione (flogosi)

L’infiammazione (flogosi) fa parte dei meccanismi di difesa non specifici dell’organismo e dei processi di cura innati del corpo.

Quando in un organismo si registrano lesioni o infezioni, il corpo mette in atto dei processi patologici rilasciando sostanze chimiche che contribuiscono a proteggerlo e a combattere gli organismi nocivi. Questo processo patologico può causare arrossamenti, aumento della temperatura della zona interessata, aumento generale della temperatura dell’organismo e gonfiore.

Tuttavia, alcuni alimenti come lo zucchero possono causare uno stato infiammatorio, ciò significa che il nostro organismo reagisce in modo del tutto simile a come reagirebbe in caso di una sopravvenuta lesione o infezione.

Le ricerche in materia dimostrano che l’abuso di alimenti ricchi di zuccheri semplici o raffinati può portare a infiammazioni croniche di basso grado che, con il trascorrere del tempo, possono determinare gravi problemi di salute a carico del muscolo cardiaco e/o dell’apparato muscolo-scheletrico, l’insorgenza di malattie autoimmuni, diabete, allergie e patologie tumorali.

Nel 2014 è stata condotta una ricerca scientifica per comparare gli effetti del fruttosio e del glucosio sulla flogosi. Ai soggetti coinvolti nella ricerca, è stata somministrata una dose di fruttosio da 50 g in un’unica soluzione. Quest’unica somministrazione di fruttosio ha determinato dei livelli significativamente elevati di proteina C-reattiva (CRP), la quale è un marcatore di risposta allo stimolo infiammatorio.
L’aumento dello stato infiammatorio era già evidente dopo 30 minuti dalla somministrazione del fruttosio, e questi livelli, due ore dopo, erano ancora più elevati rispetto alla precedente rilevazione. (50 grammi di fruttosio corrispondono approssimativamente al contenuto zuccherino di due lattine di bibite gassate).

La proteina C-reattiva (CRP) è prodotta dal fegato ed è una delle cosiddette “proteine di fase acuta” ossia appartenente al gruppo di proteine sintetizzate come risposta alla presenza di uno stato infiammatorio. Un alto livello di CRP presente nel sangue è un marcatore di flogosi. É bene ricordare che l’alto livello di CRP può essere causato da una varia molteplicità di patologie che va dalle infezioni fino a patologie tumorali.

Quando i livelli glicemici nel sangue aumentano rapidamente, lo zucchero si lega alle proteine del collagene in un processo chiamato “glicazione”, che determina una risposta infiammatoria nell’organismo.

La proteina C-reattiva (CRP) non è contenuta negli alimenti. Tuttavia, i suoi livelli sono fortemente influenzati dalla dieta alimentare seguita dall’individuo.

Numerose ricerche scientifiche effettuate, che contemplano fra i parametri anche la rilevazione dei livelli di CRP, mostrano una stretta relazione tra l’elevato consumo di zucchero e una varietà di disturbi muscolo-scheletrici, fra cui non solo l’artrite ma anche la fibromialgia.

Questo è stato l’obiettivo di una recente ricerca condotta dalla Harvard Medical School, la quale ha dimostrato come le donne che utilizzavano nella propria dieta alimentare grandi quantità di carboidrati ad alto indice glicemico avessero livelli molto elevati di CRP.

L’organismo produce CRP a partire dall’interleuchina-6 (IL-6), una potente molecola proteica implicata nella regolazione della risposta immunitaria.
L’interleuchina-6 è una molecola essenziale per la comunicazione cellulare, incaricata di avvisare il sistema immunitario in funzione pro-infiammatoria, rilasciando CRP e molte altre sostanze per l’attivazione della successiva risposta infiammatoria.

Un organismo in sovrappeso è soggetto a una risposta infiammatoria più elevata perché le cellule adipose, in particolar modo quelle presenti nella zona addominale, producono grandi quantità di IL-6 e di CRP.
Con l’aumentare dei livelli di zucchero nel sangue, aumentano anche l’IL-6 e la CRP.

inflamación

In che modo lo zucchero concorre nella risposta infiammatoria?

  • Per sovrapproduzione di AGE:
    Gli AGE sono i prodotti finali del processo di glicazione avanzata. La glicazione deriva dalla parola Glucosio ed è il risultato della reazione dell’organismo agli zuccheri presenti negli alimenti che consumiamo.
    L’elevata concentrazione di AGE provoca stress ossidativo e infiammazione.
  • Per l’aumentare della permeabilità intestinale:
    I batteri, le tossine e le particelle alimentari non digerite possono permeare attraverso l’intestino più facilmente e raggiungere la circolazione sanguigna, questo è un fattore di rischio che può portare a una successiva risposta infiammatoria.
  • Per eccesso di colesterolo “cattivo” LDL:
    L’eccesso di colesterolo LDL è stato associato a un aumento dei livelli di proteine C-reattive (CRP).
  • Aumento di peso:
    Una dieta alimentare ricca di zuccheri aggiunti e carboidrati raffinati può portare a un aumento di peso. L’eccesso di massa grassa corporea è relazionato alla risposta infiammatoria, in parte dovuta all’insulino-resistenza.

È importante ricordare la scarsa probabilità che uno stato infiammatorio sia causato solo dallo zucchero. Altri fattori come stress, farmaci, il tabagismo e l’assunzione eccessiva di grassi possono anch’essi scatenare una risposta infiammatoria.

È possibile utilizzare il kit del test delle infiammazioni per testare con la kinesiologia i livelli della PCR (o CRP), dell’IL-6 cosi come delle altre sostanze che intervengono nel processo infiammatorio.

 

Giu 30, 2017

I batteri intestinali influiscono sulle nostre preferenze alimentari

I batteri intestinali

Le nuove scoperte degli ultimi anni hanno dimostrato quanto sia importante avere e mantenere una buona flora intestinale. Possibili squilibri potrebbero causare di tutto, dal cancro alle malattie cardiache a stati d’ansia.

Il nostro corpo è ricoperto da questi microorganismi. Il numero di batteri che vivono all’interno del corpo umano supera di 10 volte quello delle cellule. Per questo motivo, sembra che possano influire sulle nostre decisioni riguardo a cosa mangiare e bere.

Nell’intestino ci sono microorganismi di diverso tipo, ma tutti hanno un obiettivo principale: sopravvivere. Specie diverse prediligono sostanze nutritive diverse, come lo zucchero, i grassi o i vegetali.

Gli esperti hanno dimostrato che i batteri intestinali influenzano il nostro comportamento e il nostro stato d’animo, alterando chimicamente gli impulsi nervosi che il cervello utilizza per monitorare l’attività dell’intestino.

Liberando determinate sostanze chimiche, i nostri recettori gustativi possono cambiare e indurre stati d’ansia, facendoci preferire alcuni alimenti su altri.

Gli esperti stanno studiando come questi batteri siano in grado di liberare tossine per farci sentire male quando mangiamo qualcosa non di loro gusto, rimediando con la produzione di sostanze chimiche che ci facciano sentire bene quando scegliamo l’alimento “giusto”.

preferenze alimentari

Se sono batteri benefici, non c’è nessun problema. Tuttavia, se sono i batteri patogeni (cattivi) ad avere il controllo dell’intestino, la battaglia tra le diverse specie per il cibo può generare alcuni cambiamenti indesiderati nel nostro organismo.
La loro alimentazione non sempre combacia con la nostra dieta e questo lo notiamo spesso nel modo di sentirci e di comportarci: sbalzi d’umore, disturbi d’ansia, perdita di controllo dei livelli di zucchero nel sangue.
Influenzando i nostri desideri e il nostro umore per soddisfare le loro necessità, i batteri intestinali sono una delle cause dell’obesità e delle malattie cardiache, due delle patologie più comuni che colpiscono la nostra società.

I batteri intestinali vivono nel loro micro-ambiente nel nostro tratto digestivo e sono in contatto diretto con il nostro sistema immunitario, nervoso ed endocrino. Con il tempo, scoprono quali sono esattamente gli impulsi chimici che danno loro una maggiore quantità di alimenti per sopravvivere e prosperare.

Con l’aiuto del Kit per il test basico possiamo verificare se mancano o abbiamo troppi batteri intestinali di un determinato tipo.

 

 

Analía Iglesias

analia@sibuscas.com

L’importanza del sole per la nostra salute cerebrale

Un recente studio pubblicato sulla rivista Neurology ha analizzato la vitamina D a proposito della nostra salute celebrale, dimostrando che un suo calo può provocare perdite cognitive. Un gruppo di esperti dell’Università di Padova (Italia) ha monitorato quasi 2000 persone adulte nel giro di quattro anni e mezzo, sottoponendoli a prove di velocità di reazione mentale e di memoria.

Per fare questo, si sono misurati i livelli di alcune sostanze presenti nel siero a proposito della vitamina D, confrontandoli in un secondo momento con i risultati delle prove cognitive. Queste ultime sono state realizzate attraverso una metodologia atta a evitare che fattori esterni influenzassero la nostra salute o il nostro rendimento fisico.

Di seguito, i risultati ottenuti:

  • Fattori cognitivi: Le persone carenti di vitamina D manifestano una suscettibilità maggiore a sviluppare un deficit cognitivo rispetto a quelle che presentano livelli nella norma (da 75nmol/l).
  • Fattori predittivi: In persone adulte sane, livelli di vitamina D inferiore a 75 nmol/l portano a una disfunzione cognitiva nel giro di 4 anni.

Questi dati si sommano ai risultati ottenuti in altri studi su animali, che dimostrano che la mancanza di vitamina D provoca cambiamenti nelle espressioni geniche nell’ippocampo, una zona del cervello fondamentale per i processi mnemonici e solitamente colpita in caso di Alzheimer.

Nonostante le numerose ore solari alle quali siamo esposti, in Italia si osservano livelli insufficienti di questa vitamina. Le nuove scoperte promuovono il mantenimento di livelli adeguati mediante un’esposizione abituale al sole e un consumo di alimenti ricchi di vitamina D o di complessi vitaminici se necessari. Attraverso il kit delle vitamine si può verificare qualora ci si trovasse di fronte a una mancanza di vitamina D.

 

Angel Salazar

Kinepharma

 

Il cibo e il sistema immunitario

Ogni tipo di alimento provoca un’infiammazione. Quando mangiamo non ingeriamo solo sostanze nutritive, ma consumiamo anche una quantità significativa di batteri. Allo stesso tempo, il nostro corpo deve affrontare l’assimilazione del glucosio ingerito e combattere i batteri. Ciò provoca una risposta infiammatoria che attiva il nostro sistema immunitario e che ha una funzione protettiva, come hanno dimostrato per la prima volta i medici dell’Università e dell’Ospedale Universitario di Basilea. Tuttavia, nelle persone in sovrappeso questa risposta fallisce, portando a volte allo sviluppo del diabete.

E’ noto che il diabete di tipo 2 (o diabete degli adulti) provoca un’infiammazione cronica, con una serie di effetti negativi. Una serie di studi clinici ha trattato il diabete attraverso l’eliminazione della sovrapproduzione di una sostanza implicata in questo processo, la interleuchina-1beta (IL-1beta). In pazienti affetti da diabete, questa sostanza messaggera scatena l’infiammazione cronica e fa si che le cellule beta produttrici di insulina muoiano.

Attivazione del sistema immunitario

Tuttavia, questa infiammazione racchiude alcuni aspetti positivi, come scritto di recente da alcuni studiosi del Dipartimento di Biomedicina dell’Università e dell’Ospedale Universitario di Basilea sulla rivista Nature Immunology. Negli individui sani le risposte infiammatorie a breve termine svolgono un ruolo importante nell’assorbimento dello zucchero e nell’attivazione del sistema immunitario.

Il lavoro del Professore Marc Donath, Capo del Dipartimento di Endocrinologia e Diabete dell’ospedale e del suo gruppo di studio, dimostra che il numero di macrofagi (un tipo di cellula immune) intorno all’intestino aumenta durante i pasti. Queste cellule, chiamate “pulitrici”, producono la sostanza messaggera IL-1beta in quantità diverse, a seconda della concentrazione di glucosio nel sangue. Inoltre, stimolano la produzione di insulina nelle cellule beta pancreatiche e questo fa si che i macrofagi aumentino la produzione di IL-1beta. L’insulina e l’IL-1beta collaborano per regolare gli zuccheri nel sangue, mentre la sostanza messaggera IL-1beta garantisce la quantità necessaria di glucosio nel sistema immunitario e che quindi rimanga attivo.

Batteri e sostanze nutritive

Secondo gli esperti , questo meccanismo del metabolismo e del sistema immunitario dipende dai batteri e dalle sostanze nutritive che si ingeriscono durante i pasti. Con le sostanze sufficienti, il sistema immunitario è capace di combattere i nuovi batteri in modo adeguato. D’altra parte, quando si verifica una carenza di sostanze nutrienti, le poche calorie rimaste devono essere conservate per le funzioni vitali importanti a spese della risposta immunitaria. Questo spiega perché le malattie infettive si manifestano frequentemente nei paesi più poveri, caratterizzati da gravi carenze di cibo.

 Angel Salazar

Kinepharma

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